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SCHEDA DESCRITTIVA

 

Galleria Vidoniana


La Galleria prende il nome dal cardinal Legato Pietro Vidoni, che la volle affrescata nel 1665, affidando l’incarico a Giovanni Battista Caccioli (Bologna, 1623-1675) per le figure e a Domenico Santi detto il Mengazzino (Bologna, 1621-1694) per la quadratura. Si tratta di uno dei locali di rappresentanza dell’appartamento legatizio, destinata, come recitava un’epigrafe oggi perduta, “honesto deambulantium otio” (all’onesto riposo di coloro che vi passeggiano), grazie, oltre che allo splendore delle decorazioni, alla intensa luminosità, garantita dalle finestre che si aprono sull’attuale via dell’Indipendenza. Probabilmente la ricchezza di aperture le deriva dal fatto che prima di divenire una galleria, era una loggia aperta, secondo il modello cinquecentesco presente anche nei palazzi Vaticani. La ricca decorazione barocca, che finge spazi architettonici immaginari entro cui si muovono le figure, contribuisce ad alleggerire la volta a botte, piuttosto bassa e incombente. Dopo l’occupazione francese (1796) il palazzo Apostolico venne requisito ed adibito a sede del Direttorio della Repubblica Cispadana. In questa occasione la Galleria divenne lo snodo tra gli appartamenti occupati dai magistrati e fu ristrutturata in stile neoclassico. Furono scavate le nicchie che ospitano le grandi statue in stucco di Minerva, Giunone, del Genio, della Vigilanza e della Vittoria, opera di Giacomo De Maria e Giacomo Rossi e nello stesso periodo furono realizzate, sui lati corti della sala, le due mensole con fasci littori, elmi e serti d'alloro. Sulle porte che fiancheggiano il Genio sono collocati due bassorilievi di De Maria che fanno parte dello stesso progetto di riallestimento“giacobino”, i cui temi civili ben si adattano alla rinnovata configurazione della sala in epoca napoleonica. L'allestimento di questa sala è rimasto quasi invariato dal 1936. I ventuno dipinti di Donato Creti formano la più grande collezione di opere dell'artista conservate presso un singolo museo. Le quattro Storie di Achille, le quattro Virtù, le due Storie di Mercurio e le otto sovrapporte monocrome provengono dal lascito di Marcantonio Collina Sbaraglia al Senato (1744) e costituiscono il nucleo più antico e fondante delle Collezioni Comunali d'Arte.


La Collezione Baruzzi


Lungo le pareti della Galleria sono esposte alcune statue provenienti dalla raccolta dello scultore neoclassico Cincinnato Baruzzi. Nato a Imola, vicino a Bologna, Baruzzi si formò all'Accademia di Belle Arti locale e successivamente a Roma presso il più grande scultore europeo del tempo, Antonio Canova. Alla morte del maestro ne ereditò lo studio, che abbandonò per trasferirsi a Bologna dove gli era stata offerta la cattedra di Scultura all'Accademia di Belle Arti. Lo stile nitido e pulito di Baruzzi si avverte nelle copie in scala ridotta di importanti statue classiche esposte in questa sala e nell'Apollo della Sala 16, di chiara derivazione canoviana. Scultore tra i più affermati nell'età della Restaurazione, Baruzzi scolpì non solo per il mercato italiano ma per importanti committenti stranieri, tra i quali alcuni regnanti. La sua personalità cosmopolita di uomo di mondo, artista ma anche abile agente di se stesso, emerge dalla corrispondenza e dalla ricostruzione dei viaggi che anche nel periodo bolognese lo portarono a Parigi, Londra e Roma, mantenendo contatti con quella buona società aristocratica e altoborghese che formò il nucleo della sua clientela. Nel 1878 Baruzzi nominò erede delle sue proprietà il Comune di Bologna. I beni dello scultore, tra cui la villa sul colle dell'Osservanza, furono in breve tempo venduti per costituire il fondo necessario ad istituire un premio per giovani artisti da lui fortemente voluto o assegnati ad istituti culturali diversi (Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio, Collezioni Comunali d'Arte, Galleria d'Arte Moderna). Uno dei primi artisti a ricevere il Premio Baruzzi fu il fiorentino Giorgio Kienerk, che nel 1892 lo vinse con l'Anguilla, scultura esposta nella sala 18.

Gli arredi

Le sette poltrone intagliate e dorate con sedile e schienale sagomati, rivestiti in velluto rosso, appartengono alla stessa serie delle sei ora nella Sala Rossa, in cui si celebrano i matrimoni civili, al primo piano. A queste sono accostati due sgabelli allungati, anch'essi rivestiti in velluto rosso, ma di fattura diversa, con gambe arcuate, unite da volute disposte a crociera, raccordate da un sostegno centrale. Si osservano inoltre due poltroncine in stile neoclassico, similmente in velluto rosso, con gambe scanalate, sedile e schienale arrotondati (della stessa serie delle quattro esposte in sala 14). Le cinque consoles in legno scolpito e dorato, con gambe mosse e piano sagomato, testimoniano il gusto rococò bolognese, spesso influenzato dai coevi modelli romani. La prima e la terza presentano una fascia traforata a motivi floreali e foglie d’acanto, con al centro una testina femminile; nella seconda, le quattro gambe sono collegate da traverse formate da ricche volute che sorreggono al centro un vaso intagliato (al cui interno è lo stemma di Napoleone). All'ingresso della galleria si trova un prezioso leggio in legno intagliato e dorato, opera di un ebanista originario di Parma, detto "Il Parmegiano”, attivo nei primi decenni del Settecento. Esso proviene dalla sala del capitolo del monastero della Certosa di Bologna, oggi cimitero comunale, dedicato a San Gerolamo. Alla base sono collocati i consueti attributi iconografici del santo (teschio, leone, cappello cardinalizio, libro e croce).

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